Hudra Victorja
(Scuola Ansaldo - Voltri)
DRIIINNN!
Quel suono preannunciava un nuovo inizio, una nuova vita magica.
Questo non mi eccitava molto, come invece avrebbe dovuto, così mi
preparai lentamente e altrettanto lentamente mi misi in viaggio.
Una volta arrivata a destinazione, la proibizione dell’utilizzo del
cellulare mi scandalizzò. Non ero né abituata né brava a dialogare
con gli altri, quello era il mio unico “porto sicuro”. Davanti a
me incombeva un anno terribile e altrettanto terribili si
preannunciavano quelli che sarebbero venuti dopo, in questa scuola.
Invece mi sbagliavo.
Stetti attenta alle varie lezioni e non rivolsi la parola a nessuno
della mia classe o della scuola. Niente catturò il mio interesse
finché il professore non pronunciò le parole: “Lago Maledetto”.
Mi girai di scatto verso la grande distesa d’acqua e mi ci
avvicinai dividendomi dal gruppo, ignorando il resto della frase:
“non toccate l’acqua”.
Mi tolsi le scarpe e i calzini, ma quando le mie dita sfiorarono
l’acqua immobile, automaticamente mi misi le mani sul petto, mi
faceva male! Era come se qualcosa mi trafiggesse. Volevo tornare
indietro, ma i i piedi non rispondevano ai comandi. Volevo urlare, ma
non riuscivo ad emettere alcun suono; avanzai finché qualcuno non mi
afferrò e mi trascinò via da lì. Una volta uscita dall’acqua
svenni.
Non riuscivo ad aprire gli occhi, ma sentivo delle voci discutere
preoccupate.
“Secondo voi è stato il richiamo?” chiese una voce femminile.
“No, secondo me le sua era curiosità, nessuno è immune
all’incantesimo” rispose una maschile.
Dovevano essere i professori, oppure un sogno.
“In realtà c’è qualcuno che è immune, ricordate la leggenda?”
Questa era l’inconfondibile voce della preside.
“No, è impossibile!”
Da quel momento in poi calò il silenzio, così mi sforzai di aprire
gli occhi, ci riuscii e mi alzai di scatto. Tutti mi guardarono
preoccupati e la preside mi chiese: “Stai bene?”
Io mi guardai attorno: ero in infermeria, ignorai la domanda e mi
alzai, appena misi i piedi terra mi ricordai del dolore al petto e ci
posai una mano.
“Ti fa male lì?” chiese un altro professore.
Ignorai di nuovo la domanda, mi sedetti e mi guardai la punta delle
dita: erano rosse!” Le palpai preoccupata, ma non mi facevano male.
“Che cosa è successo?” Mi accorsi di avere la voce roca, così
tossii un paio di volte.
“Stavi per tuffarti, ma un tuo compagno di ha afferrata e ti ha
trascinata via, sei stata molto fortunata, lui ha avuto un tempismo
perfetto.”
Riflettei un attimo su come giustificarmi. “Non lo volevo fare,
volevo tornare indietro, ma...” Non mi venivano le parole giuste.
“Ma, cosa?” chiese impaziente una professoressa.
“Le gambe non volevano farlo, mi dispiace, non so cosa mi sia
preso.” Abbassai la testa sinceramente dispiaciuta e aspettai in
silenzio la loro risposta, che non arrivò.
A spezzarlo fu il professor Filippo. “Non pensarci più, è ora che
ti scelga un uovo.”
Alzai lo sguardo entusiasta, l’animusi era la cosa che mi
piaceva di più di quella scuola, almeno per ora, e mi ero già
scritta la melodia che avevo deciso di suonargli.
Ormai si era fatto buio, i miei compagni avevano già scelto l’uovo
dalla mattina, mancavo solo io ed ero triste perché sapevo che non
ne aerano rimasti molti, ma quando entrai nella stalla, il fieno era
ricoperto di uova colorate, tutte ricordavano la Pasqua, tutte tranne
una. Quell’uovo era caduto per terra, era nero come il carbone,
forse di più e anche particolarmente grande. Qualcosa mi faceva
pensare che quell’uovo non doveva essere lì, così lo infilai
rapidamente nella borsa, la chiusi e me ne andai via correndo.
Non
sapevo il numero della mia stanza così mi diressi verso la
segreteria. La mia stanza era la numero 173, dall’altra parete
della scuola, sospirai e cercai di sbrigarmi, non perché avevo
sonno, ma perché ero impaziente di suonare qualcosa al mio uovo.
Entrando sentii una dolce melodia, la mia compagna era così intenta
a suonare che quando smise, sussultò sentendomi parlare.
“Hai suonato una melodia meravigliosa.”
Lei ci mise un po’ prima di rispondermi. Mi analizzò: io ho la
pelle chiara, sembra avorio, i capelli neri e gli occhi verdi che
spiccano nel tutto.
Lei invece aveva la pelle chiara, gli occhi marroni scuro e i capelli
castani, sembrava una persona timida.
“G-graizie” balbettò confusa.
Le sorrisi. “Mi chiamo Diana e tu?”
“Il mio nome è Alice.”
Mi avvicinai verso di lei e le porsi la mano. “Piacere di
conoscerti, Alice.”
Lei me la strinse più fiduciosa.
Quella ragazza mi piaceva, ecco perché le riservai quel trattamento
speciale, era come me: timida e riservata, saremmo diventate ottime
amiche.
Mi sedetti sul mio letto dall’altra parte della stanza, sfilai le
scarpe, tolsi la borsa a tracolla con dentro il mio uovo, la aprii
cercando di non farle vedere il colore e infine estrassi il mio
adorato flauto di legno, lavorato a mano.
“Posso?” le chiesi educatamente.
“Certo, non chiedere” rispose lei con un sorriso, che io
ricambiai velocemente prima di abbassare lo sguardo sullo spartito.
La mia melodia ricordava un inno cantato dopo la guerra, mischiato
assieme a note dolci, faceva venire sonno a chi la ascoltava,
infatti, quando la terminai, Alice dormiva. La suonai per quasi tutta
la notte, finché non mi addormentai con il mio uovo in braccio.
Fui svegliata da una brusca scrollata, era Alice e sembrava
preoccupata.
“Muoviti, siamo in ritardo!” sibilò lei.
A quelle parole scattai in piedi, infilai l’uovo nella borsa e mi
vestii velocemente.
Una volta entrate in classe, la professoressa guardò male Alice e ma
e disse: “Pensavo ti fossi riposata abbastanza, ieri.”
All’improvviso proavi un profondo odio nei suoi conforti, ma come
si permetteva! Le restituii lo sguardo e mi andai a sedere.
Le settimane passavano, io e Alice eravamo diventate inseparabili e
avevamo fatto amicizia anche con altri compagni, ma nessuno sapeva
del lago ed io non avevo ancora incontrato il mio “eroe”.
Dall’uovo di Alice era uscito un bellissimo canorso maschio, ma il
mio non si era ancora schiuso, ero l’unica in tutta la scuola e
temevo che il professor Filippo me lo togliesse.
Un giorno decisi di ricavare qualche informazione da Alice riguardo
al lago, visto che era molto informata sulla scuola.
“Perché ti interessa? Alzò un sopracciglio e incrociò le bracia.
“Così, il professore mi ha incuriosita.”
Mi guardò ancora per un po’ in quella posizione cercando di capire
se dicevo la verità, ma poi la sciolse e mi rispose: “Si dice che
le sue acque attirino la gente come il canto delle sirene, poi
vengono inghiottiti nell’acqua, ma ora non succede più.”
Un brivido mi percorse la schiena. “Perché non succede più?”
cercai di chiedere ingenuamente.
“I maghi più potenti hanno lanciato un incantesimo, così il
richiamo non fa più effetto.”
Su di me ha fatto effetto, eccome se lo ha fatto! “E se fa effetto
nonostante l’incantesimo?”
Lei mi studiò di nuovo, ma poi rispose: “Per prima cosa è
impossibile, ma se succedesse saremmo in grave pericolo”
“Perché?” La mia voce ormai era un flebile sussurro.
“La leggenda dice: ‘Se il richiamo qui ti porterà, la Sibilla in
te risveglierà’.”
Non sembrava poi così brutto. “Chi è la Sibilla?”
Lei mi guardò sorpresa. “Non sai chi è?” esclamò.
“No.”
Mi squadrò incredula. “Be’, la Sibilla è un’entità malvagia
dell’acqua, lei stessa è acqua, può assumere forme diverse e la
controlla.”
Che c’era di malvagio?
“Se non avessi detto malvagia, potrebbe sembrare buona, vero?”
“A me sembra buona lo stesso.”
“Lo è la persona a cui lei dà questi poteri, ma poi… questa
diventa cattiva!”
Non mi spaventava molto, dei poteri non mi avrebbero certo
trasformata in una strega. “Ha altri poteri?”
Lei si fece scura in volto. “Sì, ed è per questo che diventa
cattiva… Lei porta la morte a che le sta accanto, quindi è dai
tempi antichi che viene considerata cattiva, così, stanca di cercare
di non esserlo, si abbandona alla cattiveria, ma ci sono anche tanti
altri poteri come resuscitare i morti ad esempio...”
Quello mi aveva letteralmente scioccata, ora sì, che avevo paura.
Più passava il tempo, più ero tentata di lasciare perdere il mio
uovo, gli dedicavo un sacco di tempo, ma lui non ne voleva sapere di
schiudersi e man mano diventava sempre più grande, così grande che
fui costretta a lasciarlo in camera.
Ovviamente Alice era consapevole dell’uovo anormale che avevo,
allora mi consigliò di dirlo al professore.
Subito la contraddissi, ma poi fui d’accordo con lei.
Il professore, ci accolse con un sorriso, ma vedendo le nostre facce,
il sorriso scomparì. “Va tutto bene, ragazze?”
Mi feci avanti io. “Le devo mostrare una cosa, venga.”
Lui ci seguì nella nostra camera inespressivo, ma quando vide il
grosso uovo nero steso per terra, iniziò a tremare. “Di chi è
quell’uovo?” sussurrò.
“È suo” disse Alice.
Guardò me in preda al panico, poi lei e infine di nuovo me. “Date
le dimensioni non può che essere un animusi da battaglia,
detto anche aquilupo… Dove lo hai trovato?”
Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri. “Nella stalla, però,
per terra.”
“Dovevo aspettarmelo, ci ha ingannati tutti” disse lui cupo.
“L’uovo si schiuderà tra pochissimo, devi suonargli solo una
volta.”
Io andai a prendere il flauto, ma lui mi fermò.
“Prima chiamo la preside e gli altri professori, non si sa mai. E
tu, Alice, resta lontana dall’uovo e da Diana.”
“Perché?” chiese triste.
“Lo sai.” E con questo, il professore si allontanò, ma Alice era
rimasta pietrificata.
Io non avevo capito niente, ma finalmente avrei avuto un animusi
tutto mio e non capivo neanche perché tutti fossero così
preoccupati.
Gli adulti arrivarono di corsa, ma l’uovo intanto si crepò
rumorosamente. Dalla cima spuntò un becco che cercava di uscire,
allora composi velocemente una melodia di soli do e re acuti per dare
forza al mio animusi.
Funzionò, l’animale che uscì era il più bello e maestoso che
avessi mai visto. Aveva della bellissime ali nere, il corpo piumato,
la testa era quella di un uccello, le zampe erano quelle di un lupo,
bianche con dei lunghi artigli affilati, la coda assomigliava a
quella di un gatto, nera con della penne di metallo ai lati. Era una
sorta di grifone, lasciò tutti incantati.
“È una femmina” bisbigliò il professor Filippo.
Lei lo guardò ed emise una sorta di ringhio, il professore
indietreggiò.
Io feci qualche passo aventi; lei, nel vedermi, ritrasse gli artigli,
le penne d’acciaio e infine mi saltò addosso per leccarmi la
faccia. La spostai delicatamente e le accarezzai il dorso.
“Ti chiamerò Siri” annunciai allegramente.
La preside sospirò e guardò Alice. “Abbiamo la Sibilla...” poi
guardò me. “E la sua nemica giurata allo stesso tempo, ma
soprattutto ancora bambine… diamoci da fare, questo è un colpo di
fortuna che non si ripeterà.”
Alice nel vedere che la fissavo con gli occhi sbarrati, abbassò la
testa.
Tutto si faceva più chiaro: lei era la Sibilla, la mia “eroina”,
ma allora… chi ero io?
E dopo, cosa succederà?
Victorja ci ha molto incuriosito, vero?
Adesso vogliamo il seguito!
;) Claudia
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